La terza «vita» di Domenico Volpati: calciatore, poi dentista e ora vaccinatore volontario (Extended Version)
Articolo originale tratto dal Corriere dell’Alto Adige, Corriere del Trentino e Corriere di Verona del 04.04.2021
di Rocco Leo
Domenico Volpati, 70 anni il prossimo 19 agosto, sta vivendo la sua «terza vita». Originario di Novara, nelle prime due è stato calciatore di altissimo livello, poi dentista con studi a Cavalese e, soprattutto, a Termeno. Infatti, in Alto Adige ha esercitato per 28 anni, prima di andare in pensione nel 2019. A partire da martedì prossimo, però, il «Dottore» scenderà ancora una volta in campo per quella che è letteralmente la partita della vita: battere il coronavirus. Volpati, infatti, si aggregherà agli altri volontari per somministrare i vaccini anti-Covid nel centro allestito sul Lago di Tesero.
«Essendo ancora iscritto all’Ordine dei medici, mi è sembrato assurdo non mettermi a disposizione. Mi sono proposto perché lo ritengo un dovere civico. Ho già fatto anche il richiamo per la seconda dose di Pfizer», esordisce.
Sui campi di calcio, ha vestito le maglie di squadre blasonate come Torino, Brescia, Como e, soprattutto, dell’Hellas Verona, dove arrivò a vincere uno storico scudetto nella stagione 1984-85. Lui, ex-mediano di contenimento che non disdegnava il gol, è un testimone dell’epopea più brillante del nostro calcio, avendo sfidato il fior fiore dei campioni. Da Maradona – sul suo profilo WhatsApp ha una foto in cui il Pibe de oro gli contende il pallone – a Platini passando per Zico, Careca, Falcão, Rummenigge, Rossi.
Di Pablito, poi, fu anche compagno di squadra a fine carriera: «Un ragazzo d’oro, sempre con il sorriso sulle labbra. Nello spogliatoio non ha mai fatto pesare la sua grandezza, nonostante fosse stato campione del mondo, Pallone d’oro e capocannoniere della Serie A».
A sentir parlare Volpati di quel mondo del pallone che non c’è più, ingurgitato da interessi che con il calcio giocato c’entrano ben poco, si immagina che abbia conservato un armadio traboccante di cimeli e magliette. Invece, non è così: «Le ho regalate tutte ai miei amici perché sapevo che li avrei resi felici – rivela con una risata –. Quella di Maradona, ad esempio, ce l’ha un mio amico di Salerno, compagno d’università. L’unica che conservo è la casacca dell’Hellas con lo scudetto cucito sopra». Dal lato del cuore, ovviamente.
Una storia, quella di Volpati in cui non sono mancati i momenti alla «Sliding Doors». In uno in particolare, a presentarsi è stato l’uomo del destino: Osvaldo Bagnoli.
«A trentuno anni, quando ero al Brescia in Serie B, volevo smettere per riprendere gli studi. L’ultima partita dovevamo giocarla contro l’Hellas che lottava per la promozione in Serie A, mentre noi eravamo già retrocessi. La domenica, però, venne giù il cielo e la partita fu rinviata per impraticabilità del campo. In quei frangenti, venne da me Bagnoli che, avendomi già allenato alla Solbiatese e al Como, mi conosceva bene. Voleva che lo seguissi in Serie A perché disse che aveva bisogno di un centrocampista con le mie caratteristiche. Ero molto combattuto e gli chiesi qualche giorno per pensarci. Lui mi diede tempo fino al giovedì successivo, giornata in cui si sarebbe recuperato il match. Dopo notti insonni e aver chiesto consiglio a qualche amico, decisi di accettare».
Se gli si chiede quale sia l’eredità più importante che gli ha lasciato il calcio, il «Volpe» non ha dubbi: «Non sono le vittorie e lo scudetto ma l’amicizia con i miei compagni di squadra. Tricella, Fanna, Fontolan, Elkjær, Briegel… li sento almeno un paio di volte al mese e più passano gli anni, più il nostro rapporto si cementa perché sappiamo cos’è il senso di appartenenza, l’importanza di aver condiviso tutti i giorni lo spogliatoio e una parte importante delle nostre vite. Anche per questo, Verona tutt’ora ci ama alla follia e ha nei nostri confronti una riconoscenza infinita. Siamo stati in grado di far sognare la gente».
Poi arriva la Coppa Campioni e lo sfortunato incrocio con la Juventus, campione in carica. Quella partita, però, rimase famosa per altri motivi: «Dopo aver pareggiato in casa, perdemmo la partita di ritorno per 2-0 però ci fu negato un rigore evidente sull’1-0 nel secondo tempo. A fine partita, Di Gennaro era furioso e calciò una scarpa che, rimbalzando, finì per rompere un vetro che dava sul corridoio esterno assiepato di giornalisti. Un carabiniere graduato venne da noi e chiese a Bagnoli cosa fosse successo. Vedendo l’uomo in divisa, il mister gli disse in dialetto milanese che i ladri erano nell’altro spogliatoio. Io e Tricella fummo testimoni diretti dell’episodio e, tornando sotto la doccia, non riuscivamo a smettere di ridere»
Ma Volpati è anche un uomo che ha saputo guardare oltre al pallone e quando è arrivato il momento di appendere gli scarpini al chiodo ha portato a termine gli studi in medicina e chirurgia sulla soglia dei quarant’anni. Una vera rarità nel mondo del calcio per quei tempi; un’epoca in cui o Doutor era un certo Socrates.
«I miei genitori hanno sempre voluto che i loro figli studiassero, tanto è vero che mio fratello Umberto (scomparso nel 2017, ndr), anche lui calciatore professionista nelle file del Novara, si è laureato in ingegneria, mentre mia sorella Luisa ha preso il diploma all’Isef di Milano – ricorda Volpati –. Quando ero alla Solbiatese, poi, mio padre pose la condizione che venissi ceduto ad altre squadre solo nel caso avessi conseguito il diploma».
Con la moglie Daniela, originaria di Cavalese e conosciuta durante un ritiro di preparazione del Verona negli anni ’80, è stato amore a prima vista, tanto che l’ha sposata proprio all’indomani della conquista dello scudetto. Dal loro matrimonio, sono nate due figlie, Francesca e Anna. Poi, stabilitosi in Val di Fiemme, Volpati ha trovato il suo habitat: «A differenza di mia moglie che preferisce la pianura e il mare, io amo la montagna, il respiro dei boschi. Sono andato via di casa a 19 anni e mi sono sempre considerato un nomade – racconta –. Avendo vissuto in tante città diverse, non ho fatto fatica ad ambientarmi in un paese con meno di mille abitanti. Poi, ho sempre avuto una naturale apertura mentale, che mi consente di fare velocemente nuove amicizie. Quale impressione ho di Termeno? È un posto speciale. Amo gli altoatesini e sono affezionato alle persone del posto. Lì seguono sia il campionato italiano che quello tedesco. Mi ricordo che, incalzato da uno dei miei pazienti, mi iscrissi anche al fan club del Bayern Monaco, una squadra che ho sempre trovato simpatica».
Il calcio gli è rimasto nel cuore ma quello di oggi, ormai diventato più spettacolo che sport, spesso lo annoia: «A volte devo inchiodarmi alla poltrona per non cadere addormentato e posso giurare che non è colpa dell’età – scherza –. Il nostro, era un calcio diverso, più verticale. Le marcature erano una partita nella partita e i calciatori non erano inavvicinabili come oggi. Ai miei tempi, la porta dello spogliatoio era un confine invisibile e i giornalisti ci entravano senza problemi, cosa che oggi sarebbe impensabile. Peggio essere alle prese con un ascesso o marcare Maradona? L’ascesso lo puoi curare con l’antibiotico mentre Diego non potevi marcarlo da solo. Era imprendibile e ti anticipava sempre».
Ma che Volpati sia un uomo «out of box» lo si capisce dal suo concetto di fuoriclasse e dal pudore con cui rivela il nome del giocatore che ha più apprezzato: «Per coerenza, tenevo sempre una certa distanza con gli avversari più forti perché spesso e volentieri mi toccava legnarli – ironizza –. In 21 anni di calcio, non ho mai fatto nomi ma per me la definizione di fuoriclasse, oltre all’essere un grande giocatore, comprende anche la qualità della persona. Per questo motivo scelgo il mio capitano, Roberto Tricella, uomo straordinario fuori e dentro dal campo».
Di episodi da rivelare, il «Dottore» ne avrebbe tanti da scriverci un libro intero, ma questa non è un’idea che lo stuzzica: «A tavola, mi piace di più sorprendere i miei amici tirando fuori qualche aneddoto a sorpresa, piuttosto che scrivere autobiografie. Una volta che hai messo tutto nero su bianco, infatti, non ti rimane più niente da raccontare».