Recensione di Dangerous: il Michael Jackson “definitivo” – Parte 2: le canzoni

Recensione di Dangerous: il Michael Jackson “definitivo” – Parte 2: le canzoni

L’apice artistico della lunga carriera del re del pop

di Rocco Leo

È notte fonda, di sonno manco l’ombra e i dubbi mi attanagliano. Penso che a scrivere una recensione su Dangerous di Michael Jackson a distanza di quasi 30 anni dall’uscita (il disco è stato pubblicato il 26 novembre 1991), rischio di cadere nel già letto e sentito.

Per questo motivo, seguendo il filo conduttore della prima parte dedicata alla cover, decido di “destrutturare” questo album che è molto di più del manifesto della New jack swing, ma un vero “condensatore” di generi apparentemente distanti: dal gospel di Keep the Faith al rock di Give into me.

E in mezzo? Rap, R&B, pop, musica dance e persino religiosa come in Will you be there. Tutti insieme in un viaggio di 14 tappe.. ahm, pardon, 14 tracce, che conducono stili apparentemente così differenti alla “casa madre”: la musica con la sua sconfinata capacità di unificare, di trovare inaspettati ponti.

Eppure, in questo ideale melting pot tra sonorità graffianti come la chitarra di Slash in Black or White o la già citata Give into Me (il magistrale riff dell’ex-Guns ‘n’ Roses è un capolavoro di geniale e spasmodica improvvisazione) e il ritmo sincopato delle percussioni riprodotte dal sintetizzatore (in Dangerous, She drives me wild e Can’t let her get away, i brani più sperimentali e “ibridi”), non si resta mai spiazzati.

Il filo conduttore è la voce di Michael Jackson, morbida e fanciullesca, grintosa e tagliente, dolce e rabbiosa, a elevarsi a sua volta in strumento musicale, a unificante marchio di fabbrica: siamo di fronte all’unicità, a un artista irripetibile, che non si può incastonare in un genere predefinito.

Una capacità di “impersonare” più che interpretare la musica, dunque, tratto distintivo proprio dell’artista, grande maestro del beatbox, vale a dire la capacità di creare ritmo e percussioni utilizzando bocca e voce. Da questa innata qualità è nato il capolavoro Billie Jean ma anche la traccia n. 9 di Dangerous, Who is it.

Una ballata per cuori infranti, quest’ultima, sull’abbandono da parte della persona amata con relative paranoie sul possibile tradimento (Is it a friend of mine? Is it my brother?), che amalgama una decisa linea dei bassi con cori ossessivi e armonie oniriche, che accentuano il mood contrastante tra il dolore della perdita, gli echi di ricordi struggenti nonché le “palpitazioni” di un’ansia pervasiva, dettate dall’incapacità di smettere di amare nonostante tutto il male ricevuto.

A scandire lo storytelling, la voce del re del pop, in grado di insinuarsi negli anfratti più oscuri dello spettro emozionale, strappandolo e ricucendolo in strofe intrise di tristezza, rabbia, incredulità nonché da un ineluttabile senso solitudine (I can’t take it ‘cause I’m lonely).

C’è anche il sesso, of course, rappresentato dalla figura della femme fatale, sfuggente e “pericolosa”, alla quale sono dedicate la magnifica Dangerous e In the closet, cantata insieme a una “regale” Mistery Girl, dopo il gran rifiuto di Madonna, che si rivelerà essere la principessa Stephanie di Monaco.

Più romantica e sognante è Remember the time, ormai diventato un grande classico del repertorio del cantante, anche grazie allo spettacolare videoclip ambientato nell’antico Egitto e aventi come protagonisti Eddie Murphy, Iman (divenuta in seguito moglie di David Bowie), Magic Johnson e altre star dell’NBA dell’epoca.

Ulteriori tasselli di questo prezioso mosaico da oltre 45 milioni di copie vendute nel mondo, cifre oggigiorno inarrivabili, sono Heal the world, la già citata Will you be there e Gone too soon – scritta dal duo Kohan-Grossman e dedicata a Ryan White, morto di Aids a soli 19 anni -, i cui testi e melodie hanno un tocco maggiormente introspettivo, rispecchiando l’indole più spirituale e umanitaria di MJ.

La stessa che traspare nella poesia Planet Earth, riportata nel booklet (non proprio fedelissimo ai testi cantati), prima delle ultime pagine dedicate ai credit e ai ringraziamenti.

A chiudere il cerchio, Jam e Why you wanna trip on me, canzoni che più di tutte rispecchiano l’immaginifica cover di Dangerous, nel criticare apertamente le storture e le contraddizioni di una società vittima di se stessa e interessata più alle fake news che alle miserie di questo mondo non a caso rappresentato alla rovescia sulla copertina dell’album.

Un mondo che ama sguazzare nel torbidume dei gossip e rovistare nella vita privata di quello che, all’apice della carriera, era di sicuro l’uomo più famoso e popolare del pianeta.

Dicono che sono diverso/ Loro non capiscono/ Ma ci sono problemi più grandi/ Molto di più in gioco/ Che inventare su di me recitano i primi versi di Why you wanna trip on me, a sottolineare tutto il malessere di una persona messa costantemente sotto i riflettori e al quale non è stata perdonata alcuna eccentricità.

Curiosa, però, la scelta di affidare la realizzazione della canzone più autobiografica, ideale seguito di Leave me Alone del precedente Bad, a Teddy Riley e Bernand Bell.
Un componimento, che pone Michael Jackson dietro la brillante maschera che vediamo sulla copertina del disco, quasi a voler domandare “Come ti sentiresti se fossi io a spiare te?”.

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